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DOMENICO PUCCINI

La dinastia di compositori della famiglia lucchese dei Puccini, che dal primo Giacomo (1712-1781) conduce all'autore di Bohème attraverso Antonio (1747-1832), Domenico (1772-1815) e Michele (1813-1864), sempre in discendenza diretta, è da qualche anno oggetto di studio specifico; vi si dedicano musicologi e musicisti intenti alla ricostruzione e diffusione della cultura musicale italiana sette-ottocentesca. Una ricerca e un'attività, queste, che muovono dall'ambito locale per porsi poi a fondamento attendibile di un quadro storico più generale; basti pensare, per rimanere agli autori lucchesi, alla sostanziale estraneità di un Boccherini alla cultura strumentale della terra d'origine e di tanti altri centri musicali italiani.

            Domenico è, tra i primi compositori della dinastia pucciniana, il più conosciuto dal pubblico moderno grazie alla ripresa di alcune sue opere teatrali, in particolare dell'opera buffa Il Ciarlatano, e all'interesse recentemente suscitato dalla sua produzione per tastiera. Diamo un rapido sguardo alla biografia. La formazione del musicista fu agevolata da una sovvenzione pubblica, secondo un antico costume lucchese; egli fu a Bologna dal 1793 al '96 sotto il magistero di padre Stanislao Mattei, che gli impartì le regole del contrappunto e della composizione sacra (peraltro trascurate, per motivi d'indole artistica, nella maggior parte delle posteriori composizioni), e sino all'inizio del '99 a Napoli con Paisiello, che dovette invece fornirgli più aggiornati criteri stilistici.

La carriera del terzo Puccini avrebbe dovuto consumarsi, come per Giacomo senior e Antonio, nell'ambito delle istituzioni d'ancien régime, quelle della piccola repubblica lucchese aristocratica e oligarchica (una forma di governo lungamente condivisa con Venezia): anzitutto la  Cappella di Palazzo, di cui avrebbe ereditato la guida dal padre, come implicitamente stabilito dalla sovvenzione statale. Ma proprio al rientro di Domenico in patria, coincidente con la caduta della repubblica aristocratica, l'assetto cittadino muta profondamente e anche le istituzioni musicali perdono stabilità. I principi Baciocchi, insediati nel 1805 per volere di Napoleone (vero arbitro del governo sarà la sorella Elisa, sposa di Felice Baciocchi), sopprimono la secolare cappella nell'ambito dei provvedimenti di taglio della spesa pubblica. Il «citoyen Dominique Puccini» sarà nominato, in compenso, maestro delle nuove cappelle fondate in successione da Elisa: dapprima una ridotta Cappella di Camera, poi un'altra formazione privata spentasi col trasferimento della corte a Firenze, allorché Elisa ebbe anche la Toscana (1809); istituzioni effimere e dominate dall'istrionismo di un virtuoso già celebre, Niccolò Paganini. Infine una Cappella Municipale, voluta per rianimare la musica in Lucca ma vissuta stentatamente sino alla cessazione del principato (1814). Il lavoro di Puccini ne risulta discontinuo e debolmente retribuito. Né lo solleva il buon esito dell'opera seria Il Quinto Fabio dato ai Floridi di Livorno, 1810. L'unica occupazione che lo sorregga costantemente, benché poco remunerativa, è quella di organista in seconda nella cattedrale di S. Martino, dove il padre Antonio detiene il posto di titolare; l'Opera di S. Croce (la fabbriceria) concede a Domenico la ‘sopravvi-venza’ nel 1804, e il Capitolo la ratifica nel '13. (Un dato statistico: trasmettendosi familiarmente questo incarico, dalla nomina di Giacomo senior nel 1740 alla morte di Michele nel 1864, i Puccini lo ricoprirono ininterrottamente per 124 anni.) Ma Domenico, di lì a poco scomparso, non poté succedere al padre in S. Martino, né godere del rinnovato impulso che la musica in Lucca  avrebbe avuto col ducato borbonico.

            La produzione di Domenico, un corpus piuttosto ingente rimasto manoscritto e conservato in massima parte nella biblioteca dell'Istituto Musicale «Luigi Boccherini» di Lucca, copre ecletticamente sia il tradizionale settore sacro che i nuovi settori cameristici legati alle accademie di corte e alla diffusione del dilettantismo, un fenomeno che, in Lucca, riguarda principalmente proprio gli anni del principato. Abbondano così, in catalogo, le cantate su testi arcadici, encomiastici o celebrativi, a una o due voci con accompagnamento di pianoforte, chitarra francese o piccoli organici. Le opere teatrali pervenute sono poche ma, come detto, in parte già valorizzate nei programmi odierni. A prescidere dalle Tasche composte negli anni '90, un genere cantatistico di contenuto politico, peculiare del regime repubblicano, la produzione di Domenico è completata dalle musiche per tastiera; per motivi storicamente non ben chiari (dispersione di musiche, probabilmente, a fianco di consuetudini pratiche che privilegiavano in questo campo l'improvvisazione), essa si pone come un unicum nel panorama della composizione lucchese sette-ottocentesca, con l'eccezione delle sonate e versetti pubblicati con intento didattico dal camaiorese Marco Santucci (1762-1843).

            È vero, peraltro, che il rapporto di Domenico con la tastiera appare molto più stretto e privilegiato, sin dall'inizio. Fonti diaristiche documentano la sua precoce e brillante applicazione all'organo; Luigi Nerici, autore di una fondamentale Storia della musica in Lucca (Lucca, 1879), lo definisce «buon pianista e bravissimo suonatore d'organo» e gli attribuisce il merito di aver tenuto viva in Lucca «l'arte di suonare con gusto questo strumento». La testimonianza dei contemporanei permette poi di attribuire alla madre Caterina Tesei, proveniente da una famiglia bolognese di musicisti nota per i nomi di Angelo e Valerio, un ruolo determinante nel progresso della tecnica tastieristica nella città toscana. Leggiamo quindi nello Zibaldone dell'abate Chelini, violista, sodale dei Puccini:

bravissima suonatrice di Pian Forte, fu d'essa che portò in Lucca l'arte, e la maniera, e il portamento della mano per eseguire con facilità le sonate le più difficili, delle quali cose in Lucca non ve n'era idea alcuna.

La terminologia dell'epoca confonde com'è noto il cembalo e il pianoforte, nella fase di transizione, in una sinonimia dalle molteplici varianti. Il «cimbalo de' piani e forti» sembra fare la sua comparsa a Lucca, tardivamente, verso il 1790, ma al proposito la documentazione scarseggia. E' certo che lo strumento a martelli ebbe ampia diffusione negli anni del principato napoleonico, dando nuovo incentivo alla musica cameristica e ricreativa nei salotti nobiliari e nei convitti femminili. Instradato  dalle  esperienze  familiari, divenuto egli stesso insegnante di pianoforte (con ogni probabilità il primo ufficialmente designato in Lucca), Domenico poté così acquisire una vera e localmente innovativa tecnica pianistica: più del Concerto di Cimbalo o Piano-Forte (ove l'ambivalenza è comunque fittizia e rivela forse un proposito editoriale) lo dimostra, paradossalmente, un'ampia raccolta di sonate destinate all'organo, e da cui scaturisce la presente pubblicazione.

            Paradossalmente, abbiamo detto, se pensiamo alla destinazione dichiarata quantomeno dalla fonte principale (e comunque confermata da vari dettagli interni) e alla sostanza musicale di questi brani; abbastanza prevedibilmente, al contrario, se rapportiamo questi brani alla coeva letteratura organistica italiana, che pone forti problemi di identità idiomatica e trova in questa tensione, in questa contraddizione tra stile e destinazione strumentale il maggior elemento di interesse storico. La pubblicazione delle sonate pucciniane in veste pianistica è, oltre che un gesto interpretativo atto a valorizzare il contenuto intrinseco di questi brani, una proposta di significato storiografico, l'evidenziazione dell'incertezza stilistico-idiomatica caratteriz-zante la gran parte della musica per tastiera italiana di questo periodo (che è, dobbiamo ricordarlo, il periodo di Beethoven, quasi un coetaneo di Domenico Puccini, e di Clementi; il quale, come Boccherini, elesse l'Europa, non l'Italia, a sfondo delle proprie aspirazioni strumentali)

            La tradizione delle sonate di Puccini è rappresentata da due manoscritti: Suonate per Organo del chiarissimo Maestro Domenico Puccini, un ponderoso e ben confezionato volume custodito a Siena presso l'Accademia Chigiana, contenente 43 brani (oggetto di una recente edizione anastatica, Lucca, Accademia Lucchese di Scienze, Lettere a Arti, 2001); e Suonate del Sig. Maestro Domenico Puccini, ben più modesto e dimesso testimone conservato nella biblioteca del Seminario Arcivescovile di Lucca, contenente 6 delle suddette sonate. Si tratta, in entrambi i casi, di copie del primo trentennio dell'Ottocento; la maggiore sembra destinata a perpetuare una produzione ritenuta significativa, forse su anonima commissione, mentre l'altra è redatta a uso pratico. Nel programma della presente incisione, come in queste note, viene fatto riferimento all'ordine numerico e alle indicazioni di movimento del manoscritto senese.

              Quanto, dunque, è veritiera la destinazione organistica dei brani, e quanto legittimo il trasferimento al pianoforte? Premettiamo che non si vuole con ciò adombrare un arbitrio strumentale degli antichi copisti; la stessa domanda può essere posta per una gran mole di composizioni autografe. È piuttosto una questione di orizzonti compositivi, che spingono i tastieristi, alla ricerca di un linguaggio aggiornato, a confondere i caratteri idiomatici e a forzare i criteri di prassi esecutiva. L'ambivalenza cembalo-organistica è del resto antica, in Italia; nel Settecento, essa viene avallata da tanti brani di colui che, nell'ottica ceciliana, diventerà l'ultimo baluardo dello stile severo, padre Martini. La tendenza dell'epoca è esattamente questa: superare lo stile contrappuntistico, e comunque lo stile ‘legato’ (quello che invece gli addottrinati reclamano per la musica di chiesa), anche all'organo, a favore di un'espressività di facile percezione. Finché il riferimento è il cosiddetto ‘stile galante’, tutto si risolve ancora in un linguaggio idoneo alle tastiere tradizionali, organo e cembalo indifferentemente. Quando le influenze ‘profane’, provenienti naturalmente dalla musica d'opera e attraverso essa, ovvero attraverso l'ouverture, dalla musica orchestrale, pongono istanze espressive diverse e più caratterizzate, non ci si fa scrupolo di condizionarne le tastiere, a dispetto dei limiti fisiologici; e la tastiera dinamica del pianoforte appare la più idonea a recepire un discorso musicale così improntato. Ma l'organo, in Italia, è ancora (e per molto tempo lo sarà) campo di applicazione ben più vitale: da ciò, e con la sfumatura sociologica che la considerazione implica, la contraddizione storica che dicevamo. L'evoluzione della tecnica tastieristica è quindi ravvisabile in Italia senza distinzioni tra organo e cembalo prima, tra organo e pianoforte successivamente; lo dimostra anche il fatto che alla dichiarata ambivalenza cembalo-organistica si sostituisca a tempo debito sui frontespizi (sia di manoscritti che di edizioni), la nuova e altrettanto esplicita ambivalenza organo-pianistica. Lo strumento di chiesa, nel contempo, è forzato a ottenere effetti espressivi non connaturati alle risorse strumentali.

            Le sonate di Domenico Puccini offrono un perfetto esempio di questo stato di cose. Diciamo subito che l'ascoltatore ignaro della destinazione originaria non sarebbe indotto, in alcun modo, a cogliervela; il pianoforte sembra davvero l'ambientazione ideale di siffatti brani. Entriamo dunque in merito ai caratteri delle sonate qui riprodotte per capire i motivi di questo riuscito connubio. Ma prima vogliamo elencare alcuni connotati generali della raccolta, i quali, se non devono certo distrarre gli organisti dal difficile compito di coniugare effettivamente con lo strumento a canne questo tipo di letteratura (di cui saranno esempi assai più noti e problematici, e oggi pure in fase di riscoperta e apprezzamento, le innumerevoli ‘sinfonie’ dei campioni dell'Ottocento organistico italiano, padre Davide e Giovanni Morandi), dimostrano tuttavia la legittimità della traduzione pianistica. Si tratta anzitutto della scrittura su due soli righi manualistici, che si conforma comunque all'uso italiano tradizionalmente limitato della pedaliera organistica (un uso normalmente estemporaneo di rinforzo armonico). Poi, l'eloquente rifiuto, in questi brani, della cosiddetta ‘ottava corta’, una forma di contrazione della tastiera che privava la prima ottava grave di alcune note cromatiche, e che è tipica degli organi italiani (compresi naturalmente i lucchesi) sino a metà Ottocento. In ultimo, e ancor più significativamente, la quasi totale assenza di indicazioni timbriche ossia di registrazione organistica, presente al contrario nella maggior parte delle composizioni coeve anche allo scopo di sottolinearne lo svolgimento formale.

Fabrizio Guidotti

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